Un bilancio delle elezioni in Perù e in Colombia

Italian translation of A Balance Sheet of the Elections in Peru and Colombia by Anibal Montoya (June 15, 2006)

Alan García e Uribe concertano un fronte “anti-Chavez” 

I risultati delle elezioni presidenziali in Perù e in Colombia sono stati festeggiati dalle borghesie dell’America latina e dall’imperialismo nordamericano e europeo, come un trionfo contro l’espansione “chavista” nel continente.  I principali quotidiani borghesi latinoamericani sottolineavano con entusiasmo il fatto che la Colombia e il Perù sono diventati il “cordone sanitario” che arresterà l’impatto della rivoluzione venezuelana al di fuori dei suoi confini.     

Ciò nonostante, un esame più attento di questi risultati ci dice che, ben lontani dallo scongiurare la minaccia della rivoluzione, semplicemente anticipano i processi futuri. I governi borghesi di Alan García e Álvaro Uribe partono da una posizione di maggiore debolezza rispetto ai precedenti governi dei rispettivi paesi, mentre l’opposizione politica e sociale da parte della sinistra è più forte di quella di pochi mesi fa.

Un bilancio delle elezioni in Colombia

Può sorprendere il fatto che in Colombia Álvaro Uribe, canaglia reazionaria e fantoccio dell’imperialismo nordamericano, abbia ottenuto il 62% dei voti alle elezioni presidenziali dello scorso 27 maggio. Questo dato, però, risulta meno sorprendente se si tiene conto del fatto che l’astensionismo ha riguardato circa il 60% degli aventi diritto al voto.

Significativo è stato il comportamento della coalizione della sinistra, il Polo Democratico (basato sul vecchio PC), che è arrivato secondo con il 22% dei voti, relegando il Partito Liberale, partito storico della borghesia colombiana, al terzo posto con un ridotto 10%. Occorre notare che il Polo Democratico, che si era già aggiudicato la carica di sindaco di Bogotà tre anni fa, era sparito da anni dalla politica nazionale, monopolizzata dai tradizionali partiti Liberale e Conservatore nonché dal fronte elettorale di Uribe. I primi due sono praticamente scomparsi dalla scena politica colombiana dopo 158 anni di vita, indicazione di un punto di svolta della situazione politica. Non è quindi un caso che molti lavoratori abbiano festeggiato con sincero entusiasmo il risultato elettorale del Polo Democratico. E’ necessario inoltre ricordare che la Colombia è un paese con un regime semidittatoriale che negli ultimi anni si è trasformato in un avamposto militare degli USA, con la scusa della “guerra contro il narcotraffico”. Per questo motivo, in alcune zone esiste la possibilità di brogli elettorali.

Il governo inoltre sfrutta la presenza della guerriglia delle FARC per mantenere una politica repressiva del terrore e giustificare le limitazioni dei diritti democratici. Nel rapporto annuale di Amnesty International, pubblicato nel mese di maggio, si indica che negli ultimi anni sono stati 2.750 gli omicidi politici commessi per mano dei paramilitari, spesso ai danni di dirigenti sindacali e popolari. Nonostante tutto ciò, negli ultimi 3 anni si nota chiaramente che le lotte operaie e popolari in Colombia stanno riacquistando forza. Sono stati indetti scioperi generali e mobilitazioni massicce, convocati dai sindacati operai, contro la firma del Trattato di Libero Commercio con gli USA.

Ultimamente si sono viste lotte operaie importanti, quali quella degli operai delle piantagioni di banane di Urabà, o quella dei dipendenti giudiziali. Anche gli indigeni e i campesinos hanno organizzato marce di protesta, mentre gli studenti hanno manifestato nelle principali università colombiane. Si vede chiaramente che negli ultimi anni il protagonismo della lotta sociale è passato, in Colombia, dalle mani della guerriglia contadina delle FARC a quelle dei lavoratori delle città. È questo un sintomo molto positivo. L’esperienza in Colombia ha dimostrato in modo sufficiente che il metodo più corretto per affrontare i governi capitalisti e di raggruppare l’insieme delle masse oppresse e sfruttate, è quello della lotta della classe operaia: scioperi, mobilitazioni e insurrezioni popolari. L’attività delle FARC, isolata e estranea ai lavoratori delle città e delle campagne, che ricorre a volte a metodi sbagliati di azioni armate individuali che portano a risultati controproducenti per la stessa guerriglia e per il movimento popolare, è strumentalizzata dal governo di Uribe e dai reazionari per dividere i lavoratori e i campesinos, e giustificare così la politica del terrorismo di stato contro i militanti operai e popolari. Il ruolo delle FARC potrebbe essere utile se sviluppato come complemento delle lotte urbane, ponendosi a disposizione dei lavoratori in lotta e delle comunità contadine, per aiutarli a creare Comitati di autodifesa operaia e contadina nelle città e nelle campagne, per affrontare i sicari dei padroni e dei latifondisti, sotto la direzione della classe operaia e delle sue organizzazioni.

La Colombia entra in una nuova fase della lotta di classe. Gli effetti del TLC sull’economia colombiana, insieme con i programmi di privatizzazione in corso e i tagli alla spesa sociale, nei prossimi anni non farà altro che accrescere il malessere sociale e estendere le proteste popolari.  In base all’esperienza degli effetti dei movimenti rivoluzionari che bussano alle sue frontiere con il Venezuela, l’Ecuador e, prossimamente, il Perù, la classe operaia e i campesinos poveri della Colombia si eleveranno al loro compito storico nella lotta per il socialismo.

Le elezioni peruviane

Come già analizzato nel nostro bilancio del primo turno delle elezioni peruviane, ciò che in realtà si è verificato in Perù è stato un rifiuto delle politiche capitaliste del governo di Toledo e una svolta a sinistra nella coscienza politica di massa. Il candidato che ha raccolto il maggior numero di voti nel primo turno, raggiungendo il 31%, è stato Ollanta Humala, che la gran parte della popolazione associava a riforme radicali a favore dei lavoratori e dei campesinos poveri e ai governi di Chávez e Morales. È importante sottolineare che stando ai sondaggi di settembre 2005,  Humala contava su un appoggio pari a soltanto il 7%.

La candidata della borghesia e dell’imperialismo, Lourdes Flores, ha riportato una sconfitta umiliante fermandosi al terzo posto con il 23% dei voti, quando soltanto pochi mesi fa i sondaggi le attribuivano una vittoria sicura. L’APRA di Alan García si è attestato al secondo posto con il 24%, grazie a una campagna demagogica a base di discorsi incendiari contro “i ricchi” e contro la “destra”, collocando Lourdes Flores al centro delle proprie critiche. Alan García ha tratto vantaggio anche dalla campagna isterica di menzogne e calunnie lanciata contro Humala dai mezzi di comunicazione borghesi, dove lo si accusava di tendenze militariste e dittatoriali e di conservare legami con il regime dell’ex-presidente Fujimori e con le pratiche di terrorismo di stato degli anni ’90, periodo particolarmente odiato dai lavoratori e dai campesinos peruviani. Pur se la maggior parte degli elettori di Alan García sicuramente simpatizzava con le promesse di giustizia sociale fatte da Humala e con i suoi discorsi forti contro il “neoliberalismo”, la decisione finale è stata quella di votare per García “da sinistra”, di fronte ai dubbi e alle incertezza che provavano nei confronti di un candidato come Humala che, durante la campagna elettorale, si era impegnato anche a moderare progressivamente i toni dei suoi discorsi per “non spaventare” settori del ceto medio e la borghesia. Infine, è interessante notare che nel primo turno si è registrato un 15% di schede bianche, nonostante fosse rappresentato ogni tipo di offerta politica dal punto di vista borghese, a dimostrazione della grande sfiducia esistente nei confronti dei partiti del regime, sfiducia che si estendeva anche a Humala per i motivi appena citati.

Un voto che ha fatto leva sulla paura e sull’incertezza  

Non è stato un caso se tanto la oligarchia peruviana quanto l’imperialismo sono caduti in preda al panico di fronte a questi risultati. Motivo per cui, nel secondo turno elettorale del 4 giugno, hanno appoggiato con ogni mezzo disponibile Alan García, un candidato che non ispirava loro alcuna fiducia, a causa della forte ostilità popolare nei suoi confronti dopo l’esperienza del suo nefasto governo dal 1985 al 1990, ma che era comunque l’unica opzione possibile. Naturalmente non avevano paura di Humala, ogni giorno più moderato nei suoi discorsi, impegnato a rassicurare la classe dominante sul fatto di non essere un pericoloso avventuriero. I capitalisti, però, insieme con i latifondisti e gli imperialisti, sapevano che se Humala avesse vinto le elezioni sarebbe stato considerato dalla massa in modo diverso rispetto a Garcia e che ciò avrebbe potuto scatenare un incontrollato movimento dal basso. E gli ultimi avvenimenti in Bolivia, con le misure del governo di Evo Morales di nazionalizzare parzialmente gli idrocarburi e l’inizio di una riforma agraria limitata, non avrebbero fatto altro che rafforzare questi timori nella classe dominante. In queste condizioni, se Ollanta Humala voleva vincere le elezioni, aveva come unica alternativa quella di radicalizzare il proprio discorso, con l’annuncio di misure socialiste di espropriazione di terre, banche, società privatizzate e risorse naturali, il non pagamento del debito estero, il rifiuto del TLC, ecc.  Se così avesse fatto, avrebbe provocato un entusiasmo enorme nella popolazione facendo pendere in modo decisivo a suo favore il risultato elettorale.

La sua scelta è stata invece quella di una campagna elettorale sulla difensiva, con discorsi ambigui contro il “modello neoliberale”, sulla necessità di una nuova Costituzione Politica e una nuova Repubblica: sulla “revisione” delle privatizzazioni senza metterle in discussione, sulla possibilità di “costruire un piano di sviluppo a medio e lungo termine” e “dare nuovo impulso” all’economia e altre banalità simili.

Alan García, invece, ha lanciato, in modo intelligente e con l’appoggio tutti i mezzi di comunicazione e economici della borghesia, una campagna molto offensiva, sfruttando i suoi discorsi demagogici del primo turno, dicendo che il proprio governo sarebbe stato di “centrosinistra” e appellandosi allo sciovinismo nazionale contro Chávez, accusandolo di immischiarsi nella campagna elettorale peruviana al fine di mobilitare a suo favore tutta la base sociale della piccola borghesia e dei settori più arretrati dei lavoratori e dei campesinos, con il classico discorso bonapartista: “o io o il caos”. Humala, invece di contrattaccare enfatizzando la necessità di seguire la via delle rivoluzioni di Venezuela e Bolivia che, indubbiamente, riscuotono la simpatia della classe lavoratrice del Perù, ha fatto tutto il possibile per differenziarsi da Chávez e Morales, offrendo un’immagine vacillante e inconsistente. Di fronte all’ambiguità del suo programma e del suo discorso, i settori indecisi e dubbiosi di chi avrebbe potuto far pendere la bilancia a suo favore, non vedendo differenze fondamentali nei programmi dei due candidati, hanno optato per Alan García, considerato come candidato più “affidabile”.

Nonostante tutto, Alan García ha ottenuto soltanto il 53% dei voti, una cifra molto lontana dalla vittoria schiacciante attribuitagli dai sondaggi prefabbricati; e Humala ha ottenuto circa il 47%. Bisogna sottolineare il fatto che dei 24 dipartimenti in cui è diviso il Perù, Humala se ne è aggiudicati 14 (nei distretti più poveri dell’interno del paese) e Alan García soltanto 10, tra i quali quello di Lima e dei principali dipartimenti della costa.

Il Perù si incammina verso un’esplosione sociale

Il governo di Alan García sarà simile a un uomo a cavallo di una tigre. A causa del suo passato e della traiettoria politica negli ultimi 20 anni, la gente nutre molto scetticismo e sfiducia nei suoi confronti. Non siamo nel 1985 quando la prima vittoria dell’APRA si è verificata in mezzo all’euforia generale. Ora gli elettori sono stati ricattati: “Se non voterete García finiremo nel caos”. Si tratta quindi di un voto che non fa appello all’entusiasmo ma alla paura e all’incertezza, qualcosa di simile a ciò che è accaduto con i voti per Bush durante le elezioni presidenziali del 2204. Ora vediamo che quando le masse negli USA si sono rese conto delle menzogne e delle falsità in base alle quali le avevano obbligate a votarlo hanno cambiato posizione e ora la popolarità di Bush è soltanto del 29% e va riducendosi. Ora abbiamo la maggior parte della popolazione che disapprova la guerra in Irak e il magnifico movimento di milioni di lavoratori immigrati che spazza le strade. È un grande cambiamento della situazione oggettiva, pur se negli USA ancora non c’è una crisi economica. In Perù il processo sarà più rapido e convulso perché non esistono le riserve materiali possedute dall’imperialismo nordamericano. Non c’è dubbio che il Perù si avvii verso grandi eventi. La classe dominante e l’imperialismo non possono nascondere la propria paura nei confronti di questo gigante addormentato che è la classe operaia e la classe dei campesinos poveri peruviani. Ci sono ricordi di ciò che rappresenta Alan García ed è sempre più diffusa l’idea che le cose non possono continuare ad essere come sono. 

L’appoggio a Humala è un’espressione di questa situazione. Per questo motivo, non durerà a lungo la pazienza nei confronti del governo di García. Ed è probabile che in pochi mesi inizierà la lotta per obbligare il governo a mantenere le proprie promesse. Non si può ignorare che gran parte dei voti per l’APRA sono venuti dal suo discorso dai toni di sinistra in rifiuto a ciò che le masse interpretano come “neoliberismo”, ovvero la politica della fame e della resa del capitalismo peruviano. Alan García è però un agente venale della borghesia e dell’imperialismo nordamericano, non ha altra opzione se non quella di occuparsi del lavoro sporco per salvaguardare i loro interessi (appoggiando le privatizzazioni, firmando il TLC con gli USA, rendendo più grave una miseria e una povertà sempre più diffuse). Tutto questo causerà una sua rapida perdita di prestigio. Nella misura in cui nessun gruppo detiene la maggioranza assoluta nel Congresso, ad Alan García resterà soltanto la possibilità di concertare la sua politica con gli altri partiti borghesi, senza un accordo di governo con Humala. Pur se in base ai numeri l’APRA e gli altri partiti borghesi si sono assicurati la maggioranza nel Congresso, chi si è mobilitato nelle piazze non accetterà passivamente la tesi di questa aritmetica parlamentare. Esigerà fatti per risolvere i gravi problemi sociali. Fatti che non troveranno posto nella politica di Alan García. L’instabilità sociale derivante da questa situazione porterà prima o poi a una enorme crisi politica e istituzionale, che sarà tanto più profonda quanto più ritarderà. È abbastanza probabile che in una situazione del genere i capitalisti peruviani e l’imperialismo non avranno altra scelta che quella di dialogare con Humala, come ultima risorsa per scongiurare una rivolta sociale, negoziando un qualche tipo di partecipazione nel governo, sulla base di un fronte di “Unità Nazionale” per poter deviare l’attenzione delle masse per tutto un periodo. Questo aprirà una nuova fase di lotta di classe in Perù. Ma questo governo, o quello che ne derivasse in base a elezioni anticipate dando la maggioranza ad Humala, si troverebbe a dover risolvere lo stesso dilemma. Ci sarebbero pressioni colossali da parte della popolazione dei lavoratori, ma anche da parte della classe dominante.

Pur se il suo carattere di avventuriero non lascia prevedere quale sarà la rotta che Humala darà alla propria politica in questa situazione, l’esperienza dice che non è possibile accontentare contemporaneamente i ricchi e i poveri, i capitalisti e i lavoratori, i latifondisti e i campesinos poveri e i braccianti. Ad ogni modo, senza una politica socialista che espropri l’oligarchia e le multinazionali imperialiste, Humala dovrà agire in pratica come loro agente, e ciò aprirà la strada a una crisi enorme nel suo movimento, con scissioni a destra e a sinistra. Prima o poi le finzioni del gioco parlamentare non riusciranno più a impedire ciò che è inevitabile e implicito in qualsiasi situazione politica e sociale peruviana: una sollevazione rivoluzionaria della massa dei lavoratori, dei campesinos poveri e del resto delle fasce sociali oppresse.    

Costruire uno strumento rivoluzionario

Le elezioni del 4 giugno non risolveranno nulla. Le masse lavoratrici peruviane impareranno alla scuola della lotta. Gli attivisti di sinistra del Perù deve accompagnarle e marciare al loro fianco, instaurando vincoli con i settori più attivi e coscienti, sia con quelli che confidano nel movimento di Humala, sia con le basi scontente del Frente Amplio (la sinistra riformista basata sul PC) e i sindacati. I lavoratori peruviani hanno grandi tradizioni rivoluzionarie di lotta. Sono chiamati a coprire un ruolo da protagonista nei prossimi mesi e anni. Armati di un programma socialista e rivoluzionario saranno invincibili. Bisogna però trarre una lezione dagli ultimi anni. L’unica alternativa per i lavoratori peruviani e i campesinos poveri è rappresentata dalla costruzione di uno strumento politico di classe, dalla messa a punto di un programma socialista e rivoluzionario che abbia come obiettivo quello di espropriare i grandi monopoli, i banchieri, i latifondisti e le multinazionali, senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori affinché la parte povera della popolazione possa vedere soddisfatte le richieste popolari, mettendo a disposizione della maggioranza le grandi risorse economiche, naturali e umane del Perù per far uscire il paese dall’arretratezza e dall’oppressione imperialista.    

8 giugno 2006