È la fine della globalizzazione?

Nel maggio del 2022, l’amministratore delegato di BlackRock ha dichiarato che “l’invasione russa dell’Ucraina ha messo fine alla globalizzazione che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni”. Non ha tutti i torti: la guerra in Ucraina ha fatto esplodere i conflitti che fermentavano da tempo tra le potenze principali.

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Questi sviluppi richiedono una spiegazione. Gli osservatori borghesi lamentano l’apocalisse imminente e la ristrettezza di vedute dei politici, ma queste frasi ad effetto servono a ben poco. Non si può interpretare il mondo in termini di “scelte politiche” e altre simili terminologie, non meno inutili. Dobbiamo invece cercare di capire quali contesti siano favorevoli allo sviluppo del libero commercio (che costituisce il vero contenuto della globalizzazione) e del protezionismo. La globalizzazione deve essere compresa come un processo generato da determinate condizioni; condizioni che non esistono più.

Come il commercio mondiale ha trasformato il mondo

Nei primi anni 2000 andavano di moda la globalizzazione e il libero commercio. Tanto i liberali quanto i conservatori si prostravano sull’altare di Adam Smith. Il suo La ricchezza delle nazioni veniva considerato quanto di più profondo fosse mai stato scritto.

Tutta questa ammirazione per il libero commercio non era priva di giustificazioni. Il commercio mondiale ha trasformato il mondo, e in meglio. Le forze produttive hanno superato i limiti dello Stato nazionale. Il mondo è diventato interconnesso come mai prima di allora. Le catene di approvvigionamento hanno connesso nazioni, settori industriali e lavoratori in ogni parte del mondo.

Alla crescita del commercio mondiale si è accompagnato anche un incremento della produttività. Le industrie delle economie avanzate producevano merci sempre più avanzate, e persino i Paesi ex coloniali avevano cominciato a sviluppare significative basi industriali, a partire naturalmente dalla Cina, sulla quale torneremo più avanti.

Il commercio mondiale ha fatto calare i prezzi delle materie prime trasferendone la produzione o l’estrazione laddove esse erano più accessibili, come predetto da Adam Smith. Perché non estrarre il ferro nell’entroterra australiano, dove costa 30 dollari a tonnellata, anziché in Cina, dove ne costa 90?

Allo stesso modo, la nascita della tecnologia moderna è stata resa possibile solo dalla combinazione di tutte le risorse del mondo. Prendiamo ad esempio il cobalto. Metà delle riserve e della produzione mondiali di cobalto si trovano nella Repubblica democratica del Congo. Un terzo del nichel mondiale viene prodotto in Indonesia, mentre l’Australia fornisce metà del litio in circolazione nel mondo intero. Tutte queste materie sono componenti essenziali delle batterie al litio.

Per di più, concentrando la produzione in gigantesche fabbriche messe al servizio del mercato mondiale, è stato possibile realizzare straordinarie economie di scala. La catena di montaggio della Foxconn di Shenzhen, per esempio, è in grado di produrre 100.000 iPhone al giorno: tutt’altra storia rispetto all’infanzia del capitalismo, quando la produzione era nelle mani di operai tessili, con telai a mano azionati da nulla più dei loro muscoli e capacità.

Gli ultimi 30 anni appena hanno completamente trasformato l’economia cinese. Il numero dei lavoratori impiegati nel settore primario (miniere, agricoltura, ecc.) è calato dal 60% al 34%, mentre la fetta degli operai industriali è salita dal 20% al 34%, il che significa che oggi la Cina dispone di una delle più alte quote di lavoratori industriali al mondo. Tra il 1991 e il 2019, l’industria cinese ha visto decuplicare il valore aggiunto per operaio industriale (in dollari americani), anche se rimane appena un quinto di quello prodotto dagli operai statunitensi.

La divisione mondiale del lavoro ha enormemente aumentato la produttività e reso possibile la produzione di merci a buon mercato, vedi l’espansione dei cellulari in tutto il mondo. Anche un Paese povero come l’India ha oggi 84 abbonamenti telefonici ogni 100 persone (nel 2001 era solo 1/100). Il massiccio miglioramento della produttività industriale ha anche permesso a una fetta sempre più vasta della popolazione di dedicare le proprie ore lavorative al settore dei servizi, alla sanità e all’istruzione, nonché al turismo e al settore alberghiero.

Tutto il periodo seguito alla Seconda guerra mondiale ha visto un’espansione imponente del commercio mondiale, a partire dagli anni ’50 e ’60, per poi continuare a crescere anche successivamente. Nel 1970, il commercio mondiale valeva il 13% del Pil mondiale; in altre parole, circa un ottavo di tutti i beni e servizi veniva prodotto per l’esportazione. Entro il 1980, il dato era salito al 21%. Negli anni ’90 ci fu un altro scatto al 24%, per poi raggiungere il 31% nel 2008.

Sviluppi politici accompagnavano lo sviluppo economico. Nel 1947, 20 Paesi siglavano l’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (Gatt). Lo avrebbero seguito molti altri accordi, conclusi tra i firmatari nel corso degli anni ’50 e ’60. Anche il numero dei firmatari sarebbe passato da 20 nel 1947 a 37 nel 1959, fino a 75 nel 1968. Quando nacque l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) nel 1994, il Gatt aveva 128 firmatari.

Lo stesso Wto comprendeva un accordo commerciale molto più esteso, nel quale erano compresi anche i servizi; un meccanismo di risoluzione delle controverse; accordi sulla protezione della proprietà intellettuale, ecc. In media, i dazi commerciali crollarono dal 22% nel 1947 al 5% al momento della nascita del Wto.

A rendere possibile tutto questo fu la massiccia espansione dell’economia globale che ebbe luogo dopo la Seconda guerra mondiale. In altre parole, anche chi fosse stato costretto a cedere un po’ di terreno ai suoi concorrenti o a chiudere parti della propria industria, se la sarebbe comunque cavata piuttosto bene grazie alla crescita generale dei mercati mondiali. In questo periodo il libero commercio funzionava davvero secondo la dinamica ipotizzata da Adam Smith e David Ricardo (che sviluppò le idee di Smith). Il ruolo dominante degli Stati Uniti, che si profilava sul mondo capitalista, costrinse anche i più riluttanti ad adottare un programma di libero commercio, facilitando il processo nel suo complesso.

Negli anni ’90, la Tendenza marxista internazionale (Tmi) scrisse un documento per spiegare quanto stava avvenendo:

“Il fatto che siamo ora entrati in una situazione completamente nuova su scala mondiale è comprovato dal cambiamento del ruolo del commercio mondiale. L’ingente sviluppo del commercio mondiale nel periodo dal 1948 al 1973 è stata una delle principali basi della ripresa postbellica del capitalismo mondiale. Ciò ha dato modo al capitalismo stesso – parzialmente e temporaneamente – di superare i principali ostacoli allo sviluppo delle forze produttive: lo Stato nazionale e la proprietà privata.” (A New Stage in the World Revolution )

Questo è quanto passa sotto il nome di globalizzazione, cioè una vastissima espansione del mercato mondiale per superare i limiti dei mercati nazionali. O, per meglio dire: i limiti dello Stato nazionale.

Lo Stato nazionale

A questo punto è necessario prendere in esame quale sia il rapporto fra lo Stato nazionale e lo sviluppo del capitalismo. Quando fece la sua comparsa sulla scena della storia mondiale, il capitalismo abbatté i limiti regionali e feudali di allora, creando un mercato nazionale. Vennero così superate le peculiarità dei mercati isolati, organizzati attorno a città mercantili, e del capitale regionale; i prezzi venivano ora stabiliti attraverso la concorrenza, su scala nazionale, fra agricoltori e imprese. Questo mercato nazionale fu la chiave dello sviluppo del capitalismo nei primi secoli della sua esistenza.

Via via che il capitalismo sviluppò le forze produttive, però, il monopolio prese il posto della concorrenza. Il telaio a mano fu sostituito dal telaio meccanico, e le “barriere all’ingresso”, come le chiamano gli economisti, si ingrandirono. Aprire una tessitura richiedeva ora non solo un’officina e qualche telaio a mano, ma una fabbrica, un motore a vapore e telai a macchina. Lo sviluppo delle forze produttive, cioè lo sviluppo della nuova tecnologia e la sua applicazione alla produzione, porta quasi sempre a un incremento della monopolizzazione, vale a dire la concentrazione di più capitale nelle mani di un numero più ridotto di capitalisti.

Una volta che i monopoli hanno preso il controllo ed esaurito il mercato interno, sono costretti a cercare altri sbocchi per i propri prodotti. Ciò porta a una notevole espansione del mercato mondiale e del commercio mondiale. Tuttavia, a un certo punto, anche questo smette di essere sufficiente. I monopoli devono trovare anche nuovi sbocchi per i profitti accumulati. Il capitale si mette alla ricerca di nuovi investimenti redditizi, non più disponibili sui mercati interni. È l’inizio dell’esportazione di capitale.

Il capitale viene esportato per mezzo del capitale finanziario (banche, compagnie assicurative, ecc.), che passa a dominare il mercato interno e mondiale. È il mondo descritto da Lenin nella sua opera L’imperialismo: fase suprema del capitalismo. Ed è il mondo in cui viviamo oggi, sia pure a un livello ancora superiore.

Lenin ha spiegato che i confini angusti e limitati della nazione stritolano le forze produttive, che ogni nazione capitalista è costretta a cercare di superare. Pertanto, parallelamente allo sviluppo delle forze produttive nel corso del XX secolo, il commercio mondiale si è sviluppato con una velocità ancora maggiore.

Le conseguenze sono state grandissime:

“L’intensificazione della divisione internazionale del lavoro, l’abbassamento delle barriere tariffarie e la crescita del commercio, particolarmente tra i Paesi capitalisti avanzati, hanno costituito un enorme stimolo per le economie degli Stati nazionali. Ciò è avvenuto in totale contrasto rispetto allo smembramento dell’economia mondiale nel periodo tra le due guerre, quando il protezionismo e le svalutazioni competitive contribuirono a trasformare la recessione in una depressione mondiale.” (A New Stage in the World Revolution )

Inoltre, la ripresa del dopoguerra fu sia causa che effetto dello sviluppo del commercio mondiale:

“Ciò ha dato modo al capitalismo stesso – parzialmente e temporaneamente – di superare i principali ostacoli allo sviluppo delle forze produttive: lo Stato nazionale e la proprietà privata.” (A New Stage in the World Revolution)

Il protezionismo

Il protezionismo, polo opposto del libero commercio, è ovviamente sempre esistito nella storia del capitalismo, e per ottime ragioni.

Entro la metà dell’Ottocento, le industrie britanniche regnavano sovrane sul mercato mondiale, avendo conquistato il mondo grazie a merci a basso prezzo. Era l’epoca del libero commercio britannico. Riflessi di questa realtà erano il dominio del partito dei Whig nel Parlamento britannico e l’abolizione dei dazi sul grano, noti come Corn Laws. La classe operaia vide così calare il prezzo del cibo, il che permise ai padroni di tenere bassi i salari.

Tuttavia, il regno dell’industria britannica poneva un problema per le altre nazioni le cui industrie erano molto meno sviluppate, e che avevano bisogno di qualche strumento per proteggersi dalla competizione con la Gran Bretagna. Nelle parole di Engels, queste nazioni “non vedevano la bellezza di un sistema col quale i vantaggi industriali e monetari dell’Inghilterra avrebbero potuto diventar strumenti per assicurare a questa il monopolio delle produzioni manifatturiere per sempre ed in tutto il mondo” (Engels, “Il trattato commerciale anglo-francese”, 1881).

La Svezia, per esempio, introdusse un sistema di restrizioni all’export. Le industrie britanniche erano avide di materie prime in quantità sempre maggiori, ma rifornire la Gran Bretagna di legname non lavorato, ferro e altri minerali avrebbe giovato ben poco allo sviluppo delle industrie svedesi. Furono così applicate delle restrizioni sulle esportazioni della ghisa, del ferro e del legname, per garantire che la loro lavorazione avesse luogo in Svezia. Quando l’industria svedese del metallo e del legno ingranò, le restrizioni furono rimosse, e la Svezia siglò un accordo di libero scambio con Gran Bretagna e Francia.

Allo stesso modo, durante la Guerra civile americana, gli Stati confederati produttori di cotone sostenevano il libero commercio e volevano abbassare le barriere all’esportazione di cotone grezzo in Gran Bretagna. Il nord industriale, però, era a favore di dazi protettivi a difesa delle sue industrie contro le controparti inglesi. La schiavitù era quindi intimamente legata all’arretratezza economica e al libero commercio. Ancora una volta, non appena gli Stati Uniti ebbero sviluppato le proprie industrie, la loro borghesia divenne un’accesa sostenitrice del libero commercio.

Tuttavia, questo sviluppo verso il libero commercio non andò sempre e solo in una direzione. Alla fine dell’Ottocento, le industrie britanniche erano minacciate da una concorrenza sempre più forte all’estero, in particolare dalla Germania e dagli Usa. Ciò cominciò a generare un cambiamento nella politica del Regno Unito. Il Partito conservatore tornò al potere e cominciò a caldeggiare un programma sempre più protezionista. Quella che era nota come “imperial preference” (Politica doganale preferenziale, ndt) divenne uno degli strumenti per mettere in pratica il protezionismo: essa comportava trattamenti di favore per i possedimenti coloniali della Gran Bretagna nelle relazioni commerciali all’interno dell’Impero britannico, prendendo di mira soprattutto gli Usa e la Germania.

Questa politica coincise con il passaggio all’accaparramento di terre coloniali. Lenin spiega questo processo nell’Imperialismo. La concorrenza tra i monopoli divenne concorrenza tra le nazioni. Nel 1900 le nazioni imperialiste si erano ormai spartite il mondo, e ogni ulteriore espansione sarebbe potuta pertanto avvenire solo a spese di altre nazioni imperialiste. Le crescenti contraddizioni tra le potenze capitaliste – il loro scontro per il controllo dei mercati dei beni e degli investimenti – stavano portando a un incremento delle tensioni nei rapporti internazionali.

Dal momento che la Germania era quella con meno colonie di tutti, le sue industrie erano strette dai limiti imposti loro dalla mancanza di colonie proprie e di accesso alle colonie delle altre nazioni. La borghesia tedesca aveva bisogno di una nuova divisione del mondo, in proporzione al recente sviluppo economico della Germania, e la rivendicò. Con la fine del boom di tardo Ottocento e inizio Novecento, le contraddizioni sfociarono nella guerra mondiale.

Esiste pertanto uno stretto legame fra crisi economica, protezionismo, crisi nelle relazioni internazionali e guerra. Faremmo bene a ricordarci, come illustrato da Clausewitz, che la guerra è politica con altri mezzi. E, per dirla con Lenin, la politica stessa è solo economia in forma concentrata.

La Prima guerra mondiale non riuscì a risolvere neanche una delle contraddizioni dell’economia mondiale. Anzi, le intensificò soltanto, e fu nel primo dopoguerra che il protezionismo rese davvero piede. La Gran Bretagna introdusse la “imperial preference” nel 1932-33, portando la politica delle colonie in linea con quella della madrepatria. Nel 1933, negli Usa, il presidente Hoover introdusse il Buy American Act, che costringeva gli appaltatori del governo a usare prodotti statunitensi. Simili politiche furono attuate in tutto il mondo, contribuendo a un catastrofico crollo del 30% nel commercio mondiale nel triennio successivo al crash del 1929.

Adam Smith sosteneva che le nazioni protezioniste stavano “impoverendo i loro vicini”, cioè trasformando gli Stati confinanti in Paesi indigenti, da cui l’espressione “beggar-thy-neighbour” (politica del rubamazzo). Smith stava così descrivendo i tentativi di porre rimedio a recessione e a disoccupazione esportandole all’estero, e trasferendo i consumi verso i beni prodotti all’interno della nazione. Naturalmente, nel contesto di una recessione, e in special modo di una depressione, queste contraddizioni vengono esacerbate, in quanto le contrazioni dei mercati costringono molte più fabbriche a fermarsi.

Il ritorno del protezionismo

La crisi del 2007-8 ha in realtà posto fine ad ulteriori espansioni del libero commercio. Già il ciclo negoziale di Doha sotto l’egida del Wto era in pericolo; la crisi l’ha ucciso del tutto. Tali negoziati avrebbero dovuto risolvere la questione delle sovvenzioni agricole in Europa e negli Stati Uniti. Dopo il loro fallimento, ci sono stati solo tiepidi tentativi di riprenderli. Era invece cominciato il processo che avrebbe portato all’arretramento del commercio mondiale.

Il ritorno del protezionismo viene spesso attribuito a Trump, ma il suo è stato solo un ulteriore passo logico in una strada già intrapresa. Obama aveva lanciato lo slogan “Buy American!” già nel 2009. Il Buy American Act era rimasto in vigore dal 1933, pur essendo parecchio annacquato dai vari trattati come il Gatt, la Nafta e l’Accordo sugli appalti pubblici. Obama lo rimpolpò con il suo Recovery Act del 2009, e sarebbe andato anche oltre con il Jobs Act del 2011, se non l’avessero bloccato i repubblicani. Entrambe queste leggi furono pesantemente criticate dall’Ue e dal Canada come deleterie per il libero commercio.

Trump, ovviamente, ha preso una sfilza di misure protezioniste, soprattutto riguardo l’acciaio, ma è rimasto limitato dalle norme Wto. Biden ha annullato alcune di queste misure, in particolare quelle contro l’Europa, il Giappone e il Canada. Lungi però dall’avere abbandonato il protezionismo, ha promesso che proverà a “modernizzare” i regolamenti del Wto, il che significa stemperarli per dare agli Usa più spazio di manovra per ulteriori misure protezionistiche. L’Ue, per ovvie ragioni, è tutt’altro che entusiasta di questa proposta.

L’Inflation Reduction Act di Biden segue il precedente già fissato da Obama. Chi intende ottenere una sovvenzione per l’acquisto di un’auto elettrica deve comprarne una “Made in America”. Allo stesso modo gli investimenti nell’energia verde devono rispettare le condizioni del Buy American Act, e cioè devono ricavare le loro materie prime dagli Usa. Questo ha acceso delle tensioni fra gli Usa e l’Ue, quest’ultima persuasa che gli Stati Uniti stiano discriminando i loro “alleati”. Macron ha proposto un “Buy European Act” e i tedeschi, pur avendo adottato una postura meno conflittuale, allo stesso modo fanno pressioni sugli Usa perché facciano concessioni.

Il cancelliere tedesco Scholtz, con il suo tipico atteggiamento riservato e diplomatico, ha scritto su Foreign Affairs:

“Credo che quella che abbiamo davanti agli occhi è la fine di una fase eccezionale della globalizzazione, un cambiamento storico accelerato, ma non del tutto conseguenza di shock esterni come la pandemia di Covid-19 e la guerra russa in Ucraina.”

In altre parole, la globalizzazione come la conosciamo è finita, e non tornerà, proprio perché il suo tramonto non dipende solo dalla guerra in Ucraina o dalla pandemia.

Accanto alle forze economiche che caldeggiano il protezionismo, ci sono anche fattori politici legati all’impatto della crisi sui lavoratori di tutte le economie avanzate. Le pressioni della disoccupazione, degli attacchi contro i salari e le condizioni di vita, ecc., hanno creato un enorme malcontento tra i lavoratori.

I partiti borghesi tradizionali si ritrovano senza nulla da offrire, a parte ulteriori attacchi e austerità. L’unico modo per cercare di guadagnarsi una base di consenso in questa situazione è spostarsi a destra, verso il nazionalismo, compreso il nazionalismo economico. Il patriottismo di facciata, il clima ostile verso gli immigrati e il protezionismo vanno a braccetto e sono l’unico modo con cui la borghesia può in qualche modo mettere insieme una base elettorale.

Trump ne è stato l’esempio più lampante. A parole il suo obiettivo era ripristinare la centralità della “classe lavoratrice americana” restringendo l’immigrazione e il commercio estero: una combinazione di politiche alla “beggar-thy-neighbour”, per tenere l’industria dentro casa e fuori le masse, impoverite dalle guerre imperialiste e dalla rapina economica. O almeno è quanto ha tentato di ottenere.

L’ascesa cinese

Un’altra fonte di pressione è l’ascesa della Cina. Lo sviluppo economico cinese ha rappresentato un’enorme manna per l’economia mondiale. L’apertura di nuove economie al mercato mondiale – in Europa orientale, ma specialmente in Cina – è stato uno dei fattori principali dietro il prolungamento del boom sino agli anni ’90 e ai primi anni 2000.

Lo sviluppo industriale che abbiamo visto su scala globale negli ultimi 30 anni ha avuto luogo perlopiù in Cina, emersa come nuova potenza mondiale. Dalla metà degli anni ’90 la produttività del lavoro in quel Paese è cresciuta annualmente fra il 7% il 10%.

Dopo aver inizialmente salutato i successi economici cinesi ed essersi appoggiati alla Cina per riprendersi dal crollo del 2008, la sua crescita è divenuta sempre più motivo di angoscia per gli Usa e l’Ue. A queste ultime non è sfuggito che le aziende cinesi si stavano seriamente interessando a brevetti e proprietà intellettuale, in una serie di campi che vanno dall’agricoltura all’elettronica. Compagnie cinesi come Lenovo, Geely e Huawei, a loro volta, stavano acquisendo aziende e quote di mercato in Occidente. E le potenze occidentali hanno cominciato a preoccuparsi.

Già durante la presidenza Obama si è parlato di “riorientamento verso l’Asia” (pivot to Asia), ma dopo l’annuncio del piano “Made in China 2025” nel 2012, la quantità si è trasformata in qualità: la Cina è divenuta causa di grave preoccupazione e, sotto la presidenza di Trump, gli Stati Uniti hanno avviato un tentativo serio di arrestare lo sviluppo cinese.

“Made in China 2025” ha significato annunciare al mondo che la Cina non si accontentava più di produrre solo mobili e abiti o di assemblare prodotti elettronici: voleva ora competere nei settori tecnologicamente più avanzati e ridurre la propria dipendenza dai fornitori esteri.

La Cina ha una popolazione vastissima e il valore complessivo della sua economia si sta ora avvicinando a quello degli Usa. La modernizzazione delle sue industrie ha fatto della Cina una delle più grandi nazioni industriali. Tuttavia, è ancora molto indietro: il Fmi stima che la produttività media del lavoro nell’industria sia ferma al 35% di quella delle migliori pratiche globali.

Solo nelle zone più avanzate, come le città intorno all’estuario del fiume delle Perle, Shanghai o Pechino si trova un Pil pro capite paragonabile a quello della Spagna o del Portogallo. La Cina non è sullo stesso piano di Paesi imperialisti avanzati come la Germania, il Giappone o gli Stati Uniti, ma ha esplicitato la sua ambizione di raggiungerli.

Gli Usa stanno ora sfruttando il proprio peso economico e diplomatico per impedire agli altri Paesi di esportare componenti fondamentali verso la Cina e di comprare tecnologie come il 5G da Huawei. Si sono anche posti l’obiettivo di “liberare” le proprie catene di approvvigionamento, e quelle dei loro alleati, dalla Cina.

Molti degli alleati degli Stati Uniti restano riluttanti. Infatti Scholz, contrariamente a quanto avrebbero sperato gli Usa, ha deciso di fare visita a Xi Jinping, con l’intenzione di risolvere le dispute sino-tedesche indipendentemente dagli Stati Uniti. Macron ha avuto un approccio simile, ed è degno di nota che il comunicato sugli “accordi” seguiti al suo recente incontro con Biden non fa menzione della Cina.

Le potenze di secondo piano che fanno parte dell’Ue sono scontente del modo in cui gli Stati Uniti hanno gestito il conflitto con la Russia, cioè costringendole ad adottare misure con un impatto limitato sull’economia statunitense, ma che danneggiano fortemente l’industria europea, in particolare quella tedesca. Un funzionario europeo di primo piano, rimasto anonimo, ha parlato di “congiuntura storica” nelle relazioni Usa-Ue (L’Europa accusa gli Usa di trarre profitto dalla guerra – POLITICO ). La prospettiva di un’altra guerra commerciale che le vedrebbe subordinate ai diktat degli Stati Uniti non esercita proprio alcun fascino sulle potenze europee.

Agli Usa però non manca la capacità di intraprendere azioni unilaterali, come hanno continuato a fare. Stanno infatti imponendo un nuovo tipo di legislazione, non solo per le aziende statunitensi, ma su tutte le aziende del mondo. Ne è un esempio il recente divieto di esportare in Cina macchinari per produrre semiconduttori. Allo stesso modo, gli Usa hanno richiesto unilateralmente alle aziende europee, taiwanesi, ecc. il rispetto del suo blocco contro Cuba, pena il rischio di subire a loro volta sanzioni.

Il più grande produttore di semiconduttori al mondo è un’azienda taiwanese chiamata Tsmc. Attualmente quest’ultima ha chiesto al governo Usa il permesso di poter importare macchinari nei suoi stabilimenti in Cina. Il principale produttore di tali macchinari è l’Asml, una compagnia olandese. Amsterdam sta ora discutendo con gli Usa su quali ulteriori barriere debbano essere imposte sulle esportazioni verso la Cina. In altre parole gli Stati Uniti stanno sostanzialmente costringendo i loro alleati ad accettare i loro metodi di “concorrenza” con la Cina.

Gli Usa restano la superpotenza, e proprio come nel 1914 la flotta britannica perseguiva una politica volta a mantenere una forza navale superiore rispetto a quella dei suoi due principali concorrenti messi insieme, così la spesa militare degli Stati Uniti equivale a quella dei dieci Stati che li seguono in classifica, messi insieme. È inoltre 2,7 volte superiore rispetto a quella della Cina, che è seconda. In passato questa forza veniva usata per garantire i flussi del libero commercio, ma ora viene sempre più impiegata per lo scopo opposto.

Questa svolta nella politica statunitense ha vaste implicazioni. Rispetto alla passato, la loro forza non viene più usata per difendere gli interessi generali della classe capitalista contro l’Unione Sovietica o la rivoluzione mondiale, ma gli interessi ristretti degli Stati Uniti contro le altre principali potenze. Gli Usa hanno dunque assunto il ruolo di una potenza in declino che tenta di difendersi dalla concorrenza, un po’ come la Gran Bretagna alla fine dell’Ottocento.

Sarebbe però del tutto sbagliato vedere il protezionismo solo a partire dalla prospettiva americana. Anche l’Unione europea ha interesse a contrastare la concorrenza cinese. L’Ue ha infatti il suo “Chips Act”, che risponde al tentativo di garantirsi impianti in grado di produrre batterie al litio e quant’altro. Il governo cinese ha limitato nuove iniziative di tipo protezionistico, ma non mancano le lamentele per le misure ufficiose intraprese per complicare la vita alle aziende occidentali operanti in Cina.

Tutti questi conflitti si stanno intensificando sotto la spinta degli eventi. Le conseguenze di ciò saranno significative. Ridisegnare le catene di approvvigionamento per schivare la Russia e la Cina sarà tremendamente oneroso. Pare che spostare la produzione di microchip comporti investimenti nei sistemi litografici della portata di $300 miliardi da parte di Tsmc, Intel e Samsung. Secondo l’Asml, la Tsmc ha già annunciato piani di investimento per $100 miliardi. Una volta aperte, queste nuove fabbriche dovranno essere protette dalla concorrenza straniera mediante dazi e altre misure simili. Lo dimostra in particolare il fatto che queste fabbriche probabilmente supereranno la domanda di semiconduttori sul mercato mondiale, con tutto quel che ne conseguirà in quanto a prezzi. Dunque protezionismo alimenta protezionismo.

Ne scaturiranno conseguenze a lungo termine per i livelli di investimento. Il Fmi stima che ogni punto percentuale di riduzione dei dazi ha portato a un aumento di 0,4 punti degli investimenti, grazie alla svalorizzazione dei macchinari. Ora un aumento del protezionismo porterà a macchinari più costosi e pertanto a meno investimenti.

Non saranno questi rimescolamenti ad arrestare il commercio mondiale. Come potrebbero? Tuttavia ne alzeranno i costi, il che significherà merci a prezzi più elevati, cioè più inflazione, che andrà contrastata alzando i tassi di interesse per raffreddare l’economia, rialzo che a sua volta porterà alla recessione.

Ci si potrebbe domandare perché stiano facendo tutto questo. È innegabile che la stampa liberale se lo chiede fino alla nausea. Non è però difficile identificarne la ragione. In primo luogo, sono le politiche del libero commercio che ci hanno portato proprio a questo punto. Il libero commercio ha sia rimandato, sia ampiamente esacerbato la crisi. Né il libero commercio né il protezionismo possono risolvere le contraddizioni del capitalismo.

In secondo luogo, in condizioni economiche sempre più dure, i governi stanno cercando di trovare il modo di stabilizzare il sistema politico e assicurarsi che i principali monopoli mantengano o conquistino un vantaggio competitivo. Si tratta di guadagnare tempo, così che, qualora dovesse cominciare una convulsione rivoluzionaria in grado di abbattere un regime, quantomeno potranno essere sicuri che non sarà il loro. Tuttavia, agendo tutti allo stesso modo, stanno distruggendo l’impalcatura dell’economia mondiale, e, per estensione, del sistema capitalista nel suo complesso.

Da che parte stanno i marxisti?

Storicamente il mercato, o la sua “mano invisibile”, ha giocato un ruolo progressivo, ma chiaramente non è più in grado di farlo. Per noi non si tratta di sostenere il libero commercio contro il protezionismo. Il nostro compito non è riportare l’orologio al 2006 o addirittura al 1967. La crisi, nella sua interezza, dimostra l’incapacità del capitalismo di far progredire l’umanità. Nel suo declino senile, esso sta distruggendo molte delle conquiste che aveva realizzato in passato.

Sta distruggendo le catene di approvvigionamento, sta distruggendo il suo sistema di relazioni internazionali, ci sta riportando alle guerre, al militarismo e a tutti i disastri che ne conseguono in quanto a risorse economiche e vite umane. Il nostro compito è spiegare perché sta avvenendo tutto questo e come nessuna delle due parti risolverà alcunché con le misure che propongono.

Dobbiamo avere chiaro in mente che il protezionismo è un vicolo cieco. Tutto lo sviluppo degli scorsi 80 anni ha mostrato la totale utopia reazionaria che era costituita dal “socialismo in un solo Paese”. Siamo un singolo pianeta interconnesso e possiamo trarre enormi vantaggi dalla condivisione di esperienze, tecnologie e risorse. Il socialismo sarà edificato sulle fondamenta dello scambio e dell’internazionalismo, non stritolando le forze produttive nella camicia di forza dello Stato nazionale.

Il libero commercio e la liberalizzazione non possono più farci fare un solo passo avanti, mentre d’altra parte la svolta protezionistica non fa che peggiorare le cose. Noi siamo socialisti, marxisti e rivoluzionari. Nel crollo della globalizzazione vediamo soltanto un’altra fase della crisi del sistema nel suo complesso. Riconosciamo i grandi benefici apportati dal commercio mondiale, ma questa strada è ormai chiusa. Solo sulla base della presa del potere da parte della classe lavoratrice potremo ripristinare il commercio e i rapporti mondiali su basi sane. Spianeremo la strada a un immenso balzo in avanti.

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