Cina – La tempesta che si avvicina

Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà.”

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Questa celebre frase pronunciata da Napoleone, ha avuto diversi riscontri nella storia.

In particolare negli ultimi vent’anni la Cina è diventata una potenza economica di primaria importanza che oggettivamente minaccia la leadership mondiale degli Stati Uniti. Abbiamo già trattato la questione in altri testi. (vedi “La Cina è vicina a dominare il mondo?” su Falcemartello n°8).

Ma la novità è che per la prima volta Pechino rischia di non essere più un argine della recessione mondiale (come lo è stata dagli anni ’90 fino ad ora) ma al contrario di diventarne una delle cause scatenanti.

La domanda da porci infatti è: “come sta entrando la Cina nella recessione mondiale, che è alle porte?”. Ma soprattutto “come ne uscirà?”

Guerra commerciale

La guerra dei dazi voluta da Donald Trump non è uno scherzo. Nel mese di dicembre ha provocato un crollo delle importazioni Usa dalla Cina del 63% e parallelamente si è visto un tracollo degli investimenti diretti esteri verso Pechino, nel mese di novembre del 26,3% secondo i dati del Ministero del commercio, ma che è continuato nei mesi successivi seppure a livelli meno devastanti. Anche i valori della Borsa di Shangai, nello stesso periodo sono calati del 20%.

Ma il dato più interessante, come osserva il Sole 24 Ore, è che era già in corso “una drammatica caduta degli investimenti privati” e una “consistente ripresa degli investimenti delle compagnie statali”, in conflitto con quanto era stato precedentemente deciso.

In altre parole hanno dovuto tamponare la crisi facendo intervenire lo Stato, ed evitare rischi di contagio visto che, come scrive la Banca Mondiale, “la Cina è profondamente integrata nell’economia globale”. Basta ricordare che gli investimenti del Dragone rappresentano un quinto degli investimenti globali e pesano per il 42% della ripresa dopo la crisi negli anni 2010-15.

Il calo degli investimenti privati cinesi solleva più di una preoccupazione, ai vertici del governo, sulle prospettive di crescita del Pil del paese. La crescita potenziale cinese è previsto passi dal 10,6% del 2010, al 6% del 2020. Oggi è ufficialmente al 6,4%. Può apparire un dato positivo per i canoni europei, ma con una crescita demografica al 4% e una mobilità interna di decine di milioni di cinesi che ogni anno si spostano dalle campagne verso la città alla ricerca di un lavoro, questa cifra viene considerata di stagnazione economica, e peraltro è destinata a peggiorare.

Un mare di debiti

Per giunta l’economia cinese inizia ad affogare in un mare di debiti, esattamente come è avvenuto in questi anni in tutti i paesi storici del capitalismo mondiale, con la differenza che Pechino ha accumulato il suo debito in un periodo di tempo molto più breve.

Secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi) il debito statale cinese avrebbe raggiunto i 6mila miliardi di dollari, mentre il debito globale (che somma anche i debiti delle famiglie, delle imprese e delle banche) la fantasmagorica cifra di 23mila miliardi di dollari.

Come vedremo nonostante gli sforzi intrapresi da Xi Jin Ping per arrivare a un accordo con gli Usa sugli scambi commerciali, difficilmente questi potranno avere un carattere positivo duraturo. La pressione è destinata ad accrescersi.

A fronte di numerose dichiarazioni che vanno nella direzione di una distensione tra i due paesi, i fatti ci dicono tutt’altro. Huawei, la più grande compagnia cinese di telecomunicazioni sta preparando una causa miliardaria contro l’amministrazione americana. Di certo l’avere spinto le autorità canadesi a mettere agli arresti domiciliari Meng Wanzhou, la direttrice finanziaria (nonché figlia del fondatore) del colosso cinese non può essere considerato un atto di distensione da parte dell’amministrazione americana nei confronti di Pechino.

Così come si fanno sempre più aggressive le pressioni dell’amministrazione Usa e della Commissione europea nei confronti del governo italiano, accusato di fare da cavallo di Troia, favorendo la penetrazione dei prodotti cinesi nel mercato europeo, aderendo alla Belt and Road, la cosiddetta “Nuova via della seta”.

Il premier Conte ha confermato le dichiarazioni rilasciate da Michele Geraci al Financial Times, nelle quali il sottosegretario si è mostrato convinto che in occasione della visita del premier cinese Xi Jin Ping, in Italia il 22 marzo prossimo, verrà sottoscritto l’accordo quadro che farebbe entrare il nostro paese nel maxi-progetto cinese.

Staremo a vedere se il M5S farà l’ennesima marcia indietro, ma quello che conta è il nuovo ruolo della Cina e il livello dello scontro che sta maturando su scala internazionale.

Sovrapproduzione

La Cina ha un bisogno disperato di allargare i propri sbocchi commerciali, in quanto già da tempo è in sovrapproduzione, anche se il governo di Xi Jin Ping, spingendosi oltre le “leggi naturali” del capitalismo ha continuato ad investire cifre impressionanti, indebitandosi oltre misura per sostenere artificialmente l’economia.

Questa politica di espansione creditizia (che gli economisti chiamano di quantitative easing) di cui hanno abusato tutte le banche centrali nel mondo dopo la crisi del 2008 si sta esaurendo, per la semplice ragione che non ha più effetto, non funziona più, come ha affermato anche Bloomberg di recente (17/01/2019).

La Fed, la banca centrale americana, l’ha abbandonata più di un anno fa, la Bce nel gennaio di quest’anno. In Giappone non ha più effetti da almeno un decennio.

Ora è arrivato il turno della Cina che si trova in una situazione paradossale in quanto solo una parte del gigantesco debito che ha accumulato è servito a sviluppare nuove tecnologie industriali e infrastrutture, mentre una parte consistente è andata a sostenere la valuta e imprese pubbliche decotte che sono fuori mercato, per la semplice ragione che agendo diversamente il governo cinese avrebbe dovuto aggiungere alla quota consistente di disoccupati prodotti dalle aziende private un’altra fetta di svariate decine di milioni di esuberi provenienti dalle aziende pubbliche.

Cosicchè le politiche di tipo “keynesiano” hanno il fiato corto anche in Cina, nell’unico paese che sembrava avere ancora i soldi per portarle avanti.

Pechino continua ad avere riserve valutarie importanti (3,2 mila miliardi di dollari, anche se in calo rispetto ai 4,4 di qualche anno fa) e ha certamente le banche più grandi al mondo, ma nuove nubi si addensano all’orizzonte.

Oltre alla bolla debitoria, alla bolla immobiliare e alla misure protezionistiche di Trump, la Cina inizia ad avere problemi anche con i suoi alleati, che in questi anni sono entrati a far parte della Via della seta.

Diversi di questi sono caduti nella classica “trappola del debito” e sono indebitati a livelli non più sostenibili, citiamo tra gli altri, Malesia, Pakistan, Myanmar, Sri Lanka, ecc.

La Malesia ha di recente cancellato 22 miliardi di dollari di investimenti finanziati dalla Cina. Lo Sri Lanka ha chiesto aiuto al Fmi. Il Pakistan si prepara a fare lo stesso, anche se Mike Pompeo, Segretario di Stato Usa, ha già dichiarato che non daranno un centesimo al Pakistan se questi soldi devono andare a ripagare i debiti con la Cina.

Le pressioni fatte dalla Cina per portare l’India nel progetto si sono tradotte prima nello scontro in Bhutan, e più recentemente nella ripresa del conflitto sul confine del Kashmir con l’abbattimento di due caccia indiani da parte dell’esercito pakistano.

C’è ormai un’alleanza sempre più stabile tra Usa, India, Giappone e Australia per limitare l’espansione cinese in Asia e nel mondo.

L’esaurimento delle politiche di quantitative easing da parte della Fed americana e il relativo aumento dei tassi d’interesse sul dollaro ha provocato un ulteriore shock per la Cina, in quanto i capitali tendono a fuggire dal paese. Già nel 2015 il tentativo del governo di sostenere la valuta è costato miliardi. D’altra parte accettare la svalutazione comportebbe nuove pesanti contraddizioni sia interne (aumento dei tassi d’interesse e del costo delle importazioni) che esterne (accresciute tensioni commerciali).

A conferma del livello della tensione con gli Usa, la Cina, che in passato si era sempre tenuta su una linea prudente nella politica estera, nel caso del Venezuela si è schierata apertamente dalla parte di Maduro.

Hanno bisogno di sbocchi commerciali, consolidare relazioni economiche e trovare nuovi partner economici e politici. Il che li farà sbattere contro gli interessi degli Usa e anche dell’Unione europea, ed è per questo che aldilà delle dichiarazioni le tensioni commerciali sono destinate a mantenersi e persino ad approfondirsi.

Classe operaia e studenti: verso un ’68 cinese?

Come effetto della crisi le aziende iniziano a chiudere in Cina, nonostante gli sforzi dello Stato. La disoccupazione sale (anche se non viene registrata con precisione dalle statistiche del regime) e aumentano i conflitti di tipo sindacale.

La cosa che più preoccupa il regime è che a questi conflitti, che sono in crescita dal 2008, iniziano a partecipare anche gli studenti.

Nel Guandong, il centro manufatturiero della Cina e del mondo, a fine luglio si sono ritrovati una cinquantina di studenti che stavano unendosi agli operai della Jasic International, che volevano formare un sindacato indipendente dallo Stato.

Non appena gli studenti si sono ritrovati in un concentramento a Huizhou, per poi unirsi agli operai sono stati arrestati dalla polizia, in assetto di combattimento.

Nelle principali università cinesi dall’autunno scorso vengono disertati i corsi ufficiali di marxismo (presentati come “corsi della teoria dello sviluppo economico”) e organizzati corsi autogestiti, dove si discute della crisi di sovrapproduzione e della lotta di classe.

Il rettore dell’Università di Pechino ha minacciato di chiudere questa “società marxista” autogestita, con la motivazione che gli aderenti stanno elaborando una dottrina che ha come obiettivo quello di costruire legami con la classe operaia, invece di attenersi all’ortodossia del Partito comunista cinese.

A Nanchino due studenti sono stati arrestati in una manifestazione contro il mancato riconoscimento della “società marxista” e tra novembre e dicembre, 12 studenti sono misteriosamente scomparsi a Pechino, Shanghai, Guanzhou, Shenzen e Wuhan.

Il governo ha assoldato dei picchiatori che hanno il compito di minacciare e malmenare gli studenti che hanno organizzato la ricerca dei compagni dispersi. Le autorità universitarie li hanno accusati di svolgere “attività criminali”.

La ragione principale per la quale gli studenti spaventano tanto il regime è dovuta al fatto che provengono dalle università d’elitè. Sono i figli della nuova classe dominante cinese e degli alti funzionari della burocrazia del Pcc.

Questi giovani sono dotati e influenti; cominciano gli studi considerandosi dei neoliberisti, pensando solo alla carriera. Entrano in competizione tra loro, pensano solo a come far soldi e a farsi strada nella vita. Poi, ad un certo punto, si accorgono che nonostante gli sforzi e i sacrifici non riescono a ottenere il lavoro a cui aspiravano. E finiscono col riscoprire Marx.

Quello a cui stiamo assistendo in Cina, è un fenomeno molto simile a quello visto nel Maggio ’68 francese e nell’Autunno caldo italiano, dove erano i figli della borghesia e della piccola borghesia ad orientarsi alle fabbriche alla ricerca dell’unità con la classe operaia.

La differenza rispetto ad allora non è solo nelle dimensioni del fenomeno (la Cina ha 1 miliardo e 400 milioni di abitanti e la classe operaia industriale più imponente che si sia mai vista nella storia), ma soprattutto nel fatto che questa classe operaia non ha punti di riferimento sul piano politico e sindacale, è giovane ed è molto più istruita rispetto alla prima generazione emigrata dalle campagne, nei primi anni ’90, per lavorare nelle metropoli.

Questa seconda generazione non solo non si fida del partito di governo, del Pcc e dei sindacati ufficiali, ma tende ad organizzare sindacati indipendenti, rendendosi protagonista di mobilitazioni incontrollabili, vere e proprie esplosioni di rabbia contro il regime.

Non esiste oggi in Cina, un partito comunista di massa all’opposizione come quello di Marchais o di Berlinguer, che negli anni ’60 e ’70 guidarono le mobilitazioni in Francia e in Italia, ma le condussero su binari “ragionevoli” e riformisti. Chi potrà mai svolgere quel ruolo nella Cina di oggi?

A un giovane che ha organizzato le società marxiste è stato domandato: “Quali sono le cause di questo ritorno al marxismo tra i giovani in Cina?”.

La risposta è stata: “Il governo punta sul confucianesimo, la famiglia allargata e il nazionalismo, ma questo non funziona più. Le cause principali per cui almeno un 20% dei giovani cinesi guardano al marxismo sono fondamentalmente due: il rallentamento dell’economia e la tradizione rivoluzionaria del paese”.

Per cui volendo rispondere al quesito iniziale potremmo dire che la Cina entrerebbe in questa recessione come un paese che aspira alla leadership del capitalismo mondiale per uscirne come epicentro di un nuovo processo rivoluzionario, trasformando l’ipotesi di Napoleone nella più sconvolgente e grandiosa delle realtà.