La caduta di Kherson: cosa comporta per la guerra in Ucraina?

Quando il ministro della difesa russo è apparso sui media di Stato per annunciare di avere dato l’ordine della ritirata dalla riva occidentale del fiume Dnipro, abbandonando anche la città di Kherson, che si trova sulla riva orientale, la notizia è stata subito salutata dai media occidentali come una grande vittoria per l’esercito ucraino.

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Non ci vuole chissà che per comprendere tanto giubilo. Kherson era l’unico capoluogo regionale ucraino di una certa importanza a essere stato occupato dai russi dall’inizio della guerra, a febbraio. Riconquistarlo e ricacciare i russi dall’altra parte della riva occidentale del fiume avrebbe perciò un immenso valore simbolico e logistico per l’Ucraina.

Inoltre, sarebbe stata una enorme battuta d’arresto per la Russia, che ha bisogno di quell’area per garantire un rifornimento idrico sicuro alla Crimea. Per queste ragioni aveva ogni incentivo a difenderla.

Per Vladimir Putin la perdita di Kherson è stata ovviamente una sconfitta più che imbarazzante. Aveva appena presieduto al Cremlino una cerimonia talmente fastosa da essere ridicola, presentandosi, secondo una mossa studiata a tavolino, come uno zar dell’Ottocento per celebrare l’annessione di Kherson e delle altre tre oblast [regioni, ndt].

Le televisioni lo hanno poi ripreso a firmare un documento che proclamava che i territori appena conquistati erano ora parte inalienabile della Federazione Russa. Infine aveva dichiarato al mondo intero che: “Difenderemo la nostra terra con tutte le forze e i mezzi a nostra disposizione”.

Ora, a distanza di appena qualche settimana, è umiliato pubblicamente dalla resa di Kherson. Quale migliore avvenimento per il governo di Kyiv e i suoi sostenitori occidentali? Ci si sarebbe potuti aspettare un’esplosione di gioia ed euforia popolare, accompagnata da squilli di trombe e rulli di tamburi, parate militari e parole di sfida lanciate da Zelenskij per annunciare nuove, ancor più spettacolari avanzate e l’imminente sconfitta della Russia.

Invece, con grande sorpresa del mondo, Zelenskij ha messo in guardia contro un’interpretazione eccessivamente trionfalistica di questo sviluppo, che a suo parere potrebbe essere solo una mossa per riorganizzare le forze. Nelle immortali parole di Alice nel paese delle meraviglie: stranissimo, e sempre più stranissimo.

Come possiamo capirci qualcosa?

Tanto per cominciare, in questa vita, non tutto è ciò che sembra. Putin potrà fare le sue grandiose dichiarazioni al Cremlino, o Zelenskij i suoi discorsi infiammatori davanti a dignitari adoranti dei parlamenti stranieri.

Ma la condotta pratica della guerra è nelle mani dei comandanti locali, la cui necessità più impellente è gestire le realtà della situazione sul campo e prendere le decisioni appropriate.

La guerra in Ucraina è il riflesso delle debolezze intrinseche di un regime bonapartista borghese. Si potrebbe anche affermare che, da parte russa, è stata una guerra in cui i fattori politici hanno giocato un ruolo ben superiore rispetto a quelli puramente militari.

Sin dall’inizio, la forza motrice è stata, da una parte, la spinta aggressiva della Nato verso i confini russi; dall’altra, le ambizioni esagerate di Vladimir Putin e il suo desiderio di incrementare il proprio prestigio personale e presa sul potere, due cose strettamente correlate.

Il desiderio di far fronte all’espansione aggressiva della Nato – cioè, fondamentalmente, all’imperialismo Usa – è un obiettivo comprensibile e che gode di vasto consenso nel popolo russo, in particolare tra la classe operaia.

Ma la natura bonapartista del regime mette i bastoni tra le ruote alla realizzazione di una campagna militare di successo. Le ingerenze personali di Putin nelle decisioni militari hanno svolto un ruolo negativo sin dal primo momento, quando aveva chiaramente sottovalutato le dimensioni del problema che aveva deciso di risolvere con l’unico mezzo che conosce: la forza bruta.

Putin è il prodotto della restaurazione del capitalismo in Russia. Si presenta come un uomo forte, ma in realtà è la creatura di una classe di oligarchi corrotti e rapaci, arricchitisi grazie al furto generalizzato di beni dello Stato, all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica.

In un sistema del genere, la corruzione regna sovrana. Fa parte del suo Dna, ne pervade anima e corpo; penetra tutti gli strati della società, dal massimo vertice a quelli più bassi. E dal momento che qualsiasi esercito non è che l’immagine riflessa della società che lo ha creato, non è immune dalla medesima corruzione.

È impossibile farsi un’idea precisa delle dimensioni della corruzione, delle rapine, del nepotismo, del favoritismo, del bullismo, dell’incompetenza e dell’inefficienza che si trovano nell’esercito russo. Ci possono essere ben pochi dubbi che tali fattori abbiano svolto un ruolo significativo nei fallimenti delle forze armate russe nella campagna ucraina.

I numerosi passi indietro hanno messo in luce gravi debolezze da parte russa, danneggiando inoltre il prestigio personale di Vladimir Putin – un problema potenzialmente molto serio per l’“uomo forte” del Cremlino.

È questo che l’ha infine persuaso che era necessario fare un passo indietro e lasciare le questioni tattiche più importanti per la gestione della guerra più nelle mani di comandanti di comprovato valore, in diretto contatto con le realtà del campo di battaglia.

Questo, insieme all’ordine – a lungo rimandato – di mobilitare nuove forze per il fronte, potrebbe rappresentare a un cambiamento significativo in positivo per la Russia.

Il generale Surovikin

Entra il generale Sergei Surovikin, messo a capo delle forze russe in Ucraina l’8 ottobre dopo l’attacco terroristico che ha danneggiato un ponte importante dal punto di vista strategico, che collega la Russia alla Crimea. La stampa occidentale lo ha presentato nei peggiori termini possibili, raffigurandolo come un uomo spietato noto per la sua brutalità e per avere bombardato i civili durante la campagna russa in Siria.

Convenientemente i giornalisti occidentali dimenticano il brutale bombardamento americano che ha ridotto Mosul a un cumulo di macerie fumanti. Si scordano anche di aggiungere che la campagna siriana di Surovikin ha avuto un notevole successo. È questo fatto, non valutazioni morali, che spiegano il loro estremo disprezzo per l’uomo.

La guerra deve essere discussa come una cosa a sé, proprio come l’arte, le scienze o qualsiasi altro ambito, poiché ciò che è applicabile e appropriato per un ambito determinato è del tutto inapplicabile e inappropriato per gli altri.

L’umanitarismo e il desiderio di evitare le sofferenze umane sono, com’è naturale, assolutamente degne di lode. Si tratta di valori molto importanti, per esempio, per un infermiere. Ma un pugile dei pesi massimi che mettesse queste valutazioni in cima alla sua lista di priorità non vincerebbe molti match.

Analogamente, un generale il cui principale interesse consiste nel salvare vite non vincerebbe molte guerre, giacché le guerre, per definizione, uccidono. Triste a dirsi, sono proprio i generali dotati di meno scrupoli ad avere più possibilità di vincere le battaglie. E noi dobbiamo giudicare Surovikin come giudicheremmo un professionista in qualsiasi altro campo: soltanto a partire dai risultati ottenuti.

Ovviamente la decisione russa di ritirare le sue truppe sulla riva orientale del fiume Dnipro ha grande valore per la propaganda dell’Ucraina e dei suoi sostenitori occidentali. Ma le guerre non si vincono o perdono sulla base della propaganda. E per dirla tutta, da un punto di vista militare, è perfettamente sensato che i russi abbiano fatto proprio quello che hanno fatto.

I media occidentali hanno strillato a destra e a manca che l’invio all’Ucraina di moderne armi “smart” rappresenti una “svolta”. È un’esagerazione. I lanciarazzi Himars e altri armamenti avanzati, di per sé, non bastano a far pendere l’ago della bilancia complessiva.

Ad ogni modo sono stati sufficienti per creare parecchi problemi alla retroguardia russa, indebolendone le linee di approvvigionamento. In particolare, prima dell’estate, la fornitura di pezzi di artiglieria avanzata agli ucraini da parte dell’Occidente ha permesso loro di distruggere i ponti sul Dnipro e creato serie difficoltà per il rifornimento di viveri e munizioni ai difensori di Kherson.

Gli ucraini stavano avanzando su Kherson su due fronti, minacciando di circondare la città e tagliarne fuori la guarnigione, alla quale si sarebbe posta l’alternativa se arrendersi o essere fatta a pezzi. Quella sì che sarebbe stata una cocente sconfitta per la Russia.

Messo di fronte a questa eventualità, Surovikin ha ritenuto che la cosa migliore fosse preservare le forze e le attrezzature russe ritirandosi verso la riva orientale del fiume, che forma una linea difensiva naturale.

La caduta di Kherson non è stata il frutto di un eroico attacco dell’esercito ucraino. Addirittura le corrispondenze della Bbc dalla parte ucraina del fronte di Kherson dubitavano che le forze di Kyiv disponessero già dell’equipaggiamento necessario per portare quell’obiettivo a termine.

Così, quando ha cominciato a circolare la voce che le forze russe avrebbero probabilmente abbandonato la città per ritirarsi verso la riva orientale del fiume Dnipro, questa non è stata presa sul serio.

Anzi, la prima reazione è stata di incredulità. È stato solo un trucco? Stanno cercando di attirarci in un’imboscata? La portavoce del comando meridionale ucraino, Natalia Humeniuk, ha parlato di uno stratagemma per trascinare gli ucraini in battaglia.

Anche in quel caso appare difficile spiegare lo straordinario grado di cautela con il quale la parte ucraina ha accolto la notizia del ritiro russo. E ci sono pure cose ancora più difficili da spiegare.

Perché si è a malapena combattuto intorno a Kherson? Perché il capoluogo è stato preso quasi senza colpo ferire? Ancora più importante: perché le forze russe in ritirata non sono state bombardate a tappeto?

Decine di migliaia di truppe russe impegnate nell’attraversamento del Dnipro su pochi ponti di barche sarebbero stati facili bersagli per l’artiglieria e i droni ucraini. Invece la ritirata è avvenuta in ordine e, così sembrerebbe, senza perdite significative.

C’è stato un accordo?

Ora gli ucraini, in ritardo, ce la stanno mettendo tutta per presentare questa come una grande vittoria. Ma leggendo tra le righe (cosa sempre da fare in questa guerra) sta diventando più chiaro che la situazione non è affatto come sembrava.

Le alternative sono solo due: o i comandanti ucraini sono sordi, ciechi, ottusi e molto stupidi (cosa che non crediamo), o avevano raggiunto un qualche tipo di accordo con i russi. Avrebbero potuto prendere la città di Kherson senza una battaglia sanguinosa, a condizione di permettere ai russi libero passaggio verso la riva orientale, lasciando intatto il grosso delle loro forze.

Questa suggestione potrebbe sembrare uscita dal cyberspazio delle più folli teorie del complotto. Ma qualsiasi studente di storia militare sa bene che i precedenti storici non mancano.

Nel XVIII secolo non esisteva nulla di assimilabile a eserciti permanenti o alla coscrizione. Le armate dei monarchi assoluti d’Europa erano perlopiù composte da mercenari, reclutati da diversi paesi, che combattevano per la paga. Ciò faceva delle guerre un affare assai dispendioso.

Al fine di ridurre le perdite causate dalle morti che si verificano sin troppo di frequente sui campi di battaglia, fu inventato il più ingegnoso degli stratagemmi. Alla vigilia di una battaglia, i due generali nemici si incontravano, da bravi gentiluomini, e discutevano la disposizione degli eserciti.

Rispettando le regole convenzionali della guerra, al pari di chi studierebbe una scacchiera, raggiungevano la conclusione che una parte era chiaramente in vantaggio ed era pertanto legittimata nel dichiarare vittoria. La parte opposta concordava con garbo e tutta la questione veniva risolta in modo amichevole, senza i costi i lati sgradevoli del combattimento.

Questi metodi furono poi mandati in frantumi dalla Rivoluzione francese, che fece la guerra per via rivoluzionaria,con la mobilitazione tutta la popolazione maschile mediante quella che veniva chiamata la levée en masse (leva di massa).

La massa dei soldati semplici andava in battaglia senza un minimo di necessario addestramento militare, ma infiammata dagli ideali della Rivoluzione. Questi sans-culottes a piedi scalzi si gettavano contro i soldati professionisti senza timore per la propria vita. Le armate d’Austria e Prussia non avevano mai visto nulla di simile e fuggivano in preda al terrore: tale è la forza dei popoli rivoluzionari.

La Rivoluzione francese cambiò il destino dell’Europa in molti modi. Cambiò anche la natura della guerra stessa. A partire dalla Prussia, ciascuno Stato europeo dovette introdurre la coscrizione, seguendo l’esempio francese, ma naturalmente senza un briciolo del suo contenuto rivoluzionario. Il nuovo modo di fare la guerra mostrò tutta la sua sanguinosa realtà in ben due guerre mondiali. Ma l’affaire Kherson suggerisce che le vecchie vie del XVIII secolo non si sono estinte del tutto…

Il generale Surovikin ha dato un’occhiata alla mappa e ha immediatamente afferrato il concetto che, appena i ponti sul Dnipro fossero stati abbattuti, l’unica opzione che gli restava aperta era abbandonare un luogo dove non poteva ricevere rifornimenti e ritirarsi verso la salvezza, costituita dalla riva orientale.

Il trasferimento riuscito del Dnipro da parte di svariate migliaia di truppe russe senza perdite significative di vite umane o equipaggiamenti fornisce una potente conferma della versione russa secondo cui la ritirata dalla città di Kherson è stata una manovra tattica, volta a evitare una sconfitta catastrofica.

È stata una decisione obbligata per via delle circostanze sfavorevoli che abbiamo già commentato. Ma è dovere di un comandante sul campo tenere questi mutamenti in considerazione e agire di conseguenza, che è quanto ha fatto Surovikin. Da un punto di vista strettamente militare, non ha fatto assolutamente nulla di reprensibile.

Le lamentele dell’ala ultranazionalista di Mosca mostrano semplicemente quanto questi signori siano lontani dalle realtà della guerra. Ancor più ridicole sono le dichiarazioni di Medvedev e altri, secondo i quali “non è cambiato nulla” e Kherson resta parte della Russia.

È chiaramente falso. Dal punto di vista della campagna russa, la testa di ponte sulla riva occidentale del Dnipro valeva soprattutto come posizione avanzata per un’offensiva su Mykolayiv e Odessa. Questi piani sono ora stati abbandonati per il prossimo futuro e tentare di attraversare nuovamente il fiume sarà molto più difficile.

Putin ha mostrato molto più senso degli altri quando si è limitato a stare in silenzio e scivolare silenziosamente nell’ombra, secondo il ragionevolissimo principio che è meglio tenere la bocca chiusa e lasciare che gli altri ti credano uno sciocco anziché aprirla e togliere ogni dubbio.

In ogni caso, la perdita di Kherson è lungi dall’essere la fine della storia, e, anche se causerà qualche imbarazzo a Putin, non gli farà alcun danno permanente.

L’Occidente non fa che ripetere il tormentone dell’imminente caduta di Putin. Ma la maggior parte dei russi – specie la classe operaia – ritiene (correttamente) che questa sia una guerra della Russia contro la Nato e il loro odio verso l’imperialismo Usa supera di gran lunga ogni altra considerazione.

Continueranno pertanto a sostenere lo sforzo bellico russo e a tollerare la leadership di Putin – almeno finché non diventerà del tutto insostenibile. Ma quel momento non è ancora giunto.

Cosa è stato ottenuto?

Bisogna farsi una domanda: cosa è stato ottenuto con la ritirata russa da Kherson? L’esercito ucraino controlla ora una città perlopiù deserta, presumibilmente cosparsa di mine e trappole esplosive, mentre le forze russe, ritirandosi dall’altra parte del Dnipro, si sono messe in una salda posizione difensiva.

Il fiume Dnipro è, da solo, una barriera formidabile che blocca l’offensiva ucraino verso est. L’area circostante è perlopiù campale, quasi priva di coperture dal fuoco nemico per le truppe che vi vogliano avanzare. E i russi hanno avuto tutto il tempo di fortificare la sponda orientale con bunker in cemento.

Ciò significa che gli ucraini ora non hanno alcuna prospettiva realistica di avanzare ulteriormente sul fronte meridionale. Certo, essere arrivati al Dnipro significa che le linee di approvvigionamento verso la Crimea sono ora a portata di tiro della loro artiglieria posta sulla sponda occidentale. E sì, ora hanno più truppe da poter dislocare in altri punti del fronte. Si dice anche che potrebbero trasferirle sul fronte di Zaporizhzhia, dove potrebbero tentare di tagliare il corridoio di terra russo. Sono notizie impossibili da verificare. Ma anche i russi avranno ora più soldati liberi di difendere il fronte ovunque necessario.

Il numero dei soldati russi mobilitati continua a crescere e, con l’avvicinarsi dell’inverno, il terreno permetterà loro di far entrare i carri armati in azione. Si parla di un’offensiva invernale russa, che potrebbe non concretizzarsi, ma non può essere esclusa.

Nel frattempo costanti bombardamenti aerei stanno distruggendo le infrastrutture ucraine, al punto che si parla addirittura di evacuare le principali città – tra cui Kyiv – che il peggioramento costante delle infrastrutture minaccia di rendere inabitabili.

La risposta di Washington

La realtà della situazione non sfugge agli strateghi militari seri di Washington. Parlando a un evento dell’Economic Club di New York, il generale Mark Milley, capo dello Stato maggiore congiunto, ha così commentato la ritirata di oltre 30 000 soldati russi dalla riva occidentale del Dnipro:

“Credo che lo stiano facendo per salvaguardare le forze, per ristabilire linee difensive a sud del fiume, ma resta da vedere.”

Però Milley ha anche sottolineato qualcos’altro:

“Ci potrebbe essere una possibilità di negoziare la fine del conflitto se e quando le linee del fronte si stabilizzeranno durante l’inverno. Appena ci sarà l’occasione di negoziare, quando la pace sarà possibile, coglietela. Cogliete il momento.”

L’entusiasmo del generale verso i negoziati non è casuale. Nasce dalla sua sobria valutazione del vero rapporto di forze:

“Ci deve essere un reciproco riconoscimento che la vittoria militare potrebbe essere irraggiungibile, nel vero senso della parola, attraverso mezzi militari, e pertanto si deve passare ad altri mezzi”, ha aggiunto.

Questa è l’autentica voce dell’imperialismo Usa. Ed è quest’ultima, non la retorica di Zelenskij, che in ultima analisi deciderà il destino dell’Ucraina.

In uno sviluppo ancora più significativo, il Wall Street Journal ha rivelato che l’amministrazione Biden si è rifiutata di dare all’Ucraina droni avanzati capaci di colpire bersagli all’interno della Russia.

La decisione priva l’Ucraina del tipo di armamenti avanzati che Kyiv chiede da mesi. Nonostante le suppliche di Kyiv e di un gruppo bipartisan di membri del Congresso, il Pentagono ha declinato la richiesta di fornire i droni Gray Eagle MQ-1C, che potrebbero danneggiare il largo uso di droni iraniani da parte della Russia.

È un chiaro riflesso del limite del tipo di armi che Washington è disposta a fornire alla difesa dell’Ucraina. Il suo scopo era segnalare a Mosca che gli Usa non sono disposti a mandare armi che potrebbero causare un’escalation del conflitto, creando il potenziale per un conflitto militare diretto fra Russia e Nato.

È stato anche un avvertimento a Zelenskij per cui ci sono limiti ben definiti alla volontà degli Stati Uniti di continuare a coprire le spese di una guerra rovinosamente dispendiosa senza che se ne intraveda la fine.

In un’intervista alla Cnn, il presidente ucraino ha chiesto la continuazione del sostegno bipartisan anche all’indomani delle elezioni di metà mandato. È chiaramente molto preoccupato e i suoi timori sono ben fondati.

“Politica con altri mezzi”

Clausewitz osservò molto tempo fa che la guerra è solo la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra in corso terminerà quando i fini politici dei suoi principali attori saranno stati soddisfatti, o quando una o entrambe le parti saranno esauste e perderanno la volontà di continuare a combattere.

Quali sono questi obiettivi? Quelli di Zelenskij non sono un segreto. Secondo le sue stesse parole, non si accontenterà di nulla di meno che la completa espulsione dell’esercito russo da tutte le terre ucraine – Crimea compresa. Zelenskij ha detto che si rifiuterà di negoziare con Vladimir Putin. Ha persino firmato un decreto che specifica che l’Ucraina negozierà solo con un presidente russo che avrà preso il posto di Putin. Ma ciò prevede – con un discreto ottimismo – che ci sia qualcuno con cui negoziare.

Questa posizione è entusiasticamente sostenuta dai falchi della coalizione occidentale: i polacchi, i capi degli Stati baltici, mossi dai propri particolari interessi, e, naturalmente, gli ottusi sciovinisti e guerrafondai di Londra, per i quali la Gran Bretagna, anche nel suo attuale stato di bancarotta economica, politica e morale, resta ancora una potenza imperiale.

Questi signori usciti totalmente di senno stanno spingendo l’Ucraina d andare oltre, molto oltre di quanto vorrebbero gli americani. Il loro desiderio più acceso è vedere l’esercito ucraino cacciare i russi non solo dal Donbas, ma anche dalla Crimea, provocando la caduta di Putin e la piena sconfitta e (anche se il più delle volte non ne parlano in pubblico) il totale smembramento della Federazione Russa.

Ma gli strateghi più sobri dell’imperialismo Usa sanno che tutto questo delirio è solo aria fritta, come la rana nella fiaba di Esopo, che si gonfia fino a esplodere. È della materia di cui sono fatti i sogni, senza assolutamente nulla in comune con il mondo reale.

Nonostante tutto il loro chiasso, nessuna persona seria presterà la minima attenzione alle pagliacciate dei politici di Londra, Varsavia e Vilnius. Leader di Stati minuscoli privi di un peso reale sulla bilancia della politica internazionale, restano attori di secondo piano che non potranno mai avere un ruolo più che secondario in questo grande dramma.

In effetti tutto il loro baccano non è che una fastidiosa distrazione per l’imperialismo Usa, perché sono gli Stati Uniti che pagano il conto e stabiliscono tutto quello che succede.

Gli obiettivi bellici dell’imperialismo statunitense

In verità gli obiettivi bellici di Washington non coincidono con quelli degli uomini di Kiev, che da tempo hanno ceduto la loro cosiddetta sovranità nazionale al loro Padrone al di là dell’Atlantico, e che ormai non decidono più nulla.

L’obiettivo dell’imperialismo statunitense non è – e non è mai stato – quello di difendere un singolo centimetro di territorio ucraino, o di aiutare gli ucraini a vincere una guerra, o quant’altro.

Il loro vero obiettivo è molto semplice: indebolire la Russia militarmente ed economicamente; dissanguarla e danneggiarla; ucciderne i soldati e mandarne in rovina l’economia, affinché non possa più opporre alcuna resistenza al dominio americano dell’Europa e del mondo.

È stato questo obiettivo a indurli a spingere gli ucraini in un conflitto del tutto inutile con la Russia incentrato sull’entrata nella Nato. Raggiunto questo scopo, si sono messi comodamente a sedere e a guardare lo spettacolo delle due parti che se le danno di santa ragione, alla distanza di sicurezza di svariate migliaia di chilometri.

Le sofferenze del popolo dell’Ucraina li lascia del tutto indifferenti, perché per loro è una mera pedina sullo scacchiere locale della loro lotta di potere con la Russia. E va fatto notare che, ad oggi, l’Ucraina non è stata ammessa nella Nato, che doveva essere il cuore dell’intera faccenda.

Non è un caso. Il conflitto in corso favorisce gli interessi americani in diversi modi. Gli Usa hanno il lusso di gettare il nemico in una guerra che non vede coinvolto neanche un soldato americano (almeno in teoria), in cui tutti i combattimenti e le morti sono gentilmente eseguiti da altri.

Se l’Ucraina facesse parte della Nato, le truppe da combattimento americane si ritroverebbero a combattere una guerra europea con l’esercito russo, che possiede armi nucleari. No. Molto meglio lasciare le cose come stanno.

Quando Zelenskij si lamenta che i suoi alleati occidentali non gli stanno mandando tutte le armi di cui ha bisogno per vincere, non ha torto. Gli americani lo stanno rifornendo giusto delle armi necessarie per mandare avanti la guerra, ma non abbastanza per ottenere nulla che possa avere la sembianza di una vittoria decisiva e che potrebbe evolversi in un conflitto diretto fra la Russia e la Nato. Ma questo è del tutto in linea con gli obiettivi bellici americani.

Le sanzioni hanno fallito

Un fattore importante riguarda gli effetti della guerra sull’economia mondiale e la minaccia che ne deriva per la stabilità economica e politica in occidente.

Le sanzioni imposte sulla Russia dopo la sua invasione dell’Ucraina sono state uno fallimento spettacolare. Il valore delle esportazioni russe è infatti cresciuto dall’inizio della guerra.

Benché il volume delle importazioni russe sia precipitato a causa delle sanzioni, diversi Paesi hanno accresciuto il loro commercio con la Russia. Secondo uno studio particolareggiato del New York Times, le importazioni dalla Turchia sono aumentate del 113% e le importazioni cinesi del 24%.

Il volume dei commerci con la Russia dopo l’inizio della guerra risultava essere come segue:

Gran Bretagna: -76%

Svezia: -76%

Usa: -35%

Germania: -3%

Giappone: +13%

Corea del Sud: +17%

Olanda: +32%

Spagna: +57%

Cina: +64%

Belgio: +81%

Brasile: +106%

Turchia: +198%

India: +310%

Inoltre l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas ha compensato le entrate russe mangiate dalle sanzioni L’India e la Cina comprano quantità maggiori del suo greggio, anche se a un tasso scontato.

Pertanto le entrate perse a causa delle sanzioni sono state compensate dall’aumento dei prezzi del petrolio e del gas sui mercati mondiali. Vladimir Putin continua a finanziare i suoi eserciti con i proventi, mentre l’Occidente rischia un inverno al gelo con bollette alle stelle e una rabbia sociale crescente.

L’appoggio scricchiola

La domanda è: quale parte si stancherà della guerra per prima? È chiaro che il tempo non è dalla parte dell’Ucraina, né da un punto di vista militare né da quello politico. E in ultima analisi sarà quest’ultimo a pesare di più sul piatto della bilancia.

Con l’arrivo dell’inverno e delle gravi penurie di gas ed elettricità in Europa, il sostegno pubblico per la guerra in Ucraina si indebolirà.

Nemmeno il sostegno da parte statunitense può essere dato per scontato. In pubblico gli americani tengono in piedi l’idea del loro incrollabile supporto per l’Ucraina, ma in privato sono tutt’altro che convinti dell’esito.

Dietro le quinte Washington sta facendo pressione su Zelenskij perché negozi con Putin. Lo ha dimostrato la visita a sorpresa di Blinken a Kyiv in settembre e la più recente visita del consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan a novembre. Ma gli strateghi dell’imperialismo Usa non sono per niente sicuri su come procedere.

Gli americani vedevano le avanzate ucraine sul campo di battaglia (grazie soprattutto al coinvolgimento attivo dell’imperialismo Usa) solo come moneta di scambio, pensata per dare agli ucraini più margini di manovra al tavolo delle trattative.

Nella pratica, però, la vittoriosa offensiva di Kharkiv e la ritirata russa da Kherson hanno complicato lo stato delle cose sulla scacchiera diplomatica. Da una parte, Zelenskij e i suoi generali, tronfi per questi inattesi successi, hanno voluto andare ben oltre.

Dall’altra, le disfatte militari hanno rappresentato un colpo umiliante per Putin, che ne ha tratto la conclusione della necessità di intensificare la sua “operazione militare speciale”. Attualmente nessuna parte è perciò disposta a trattare alcunché di significativo.

La demagogia di Zelenskij, che insiste continuamente che non rinuncerà a nemmeno un centimetro di terra, è chiaramente pensata per fare pressione sulla Nato e sull’imperialismo statunitense mostrando loro che gli ucraini combatteranno fino alla morte, sempre a condizione che l’Occidente continui a mandare ingenti carichi di denaro ed armi.

Ma i sondaggi dicono che il sostegno del pubblico per la guerra in Ucraina sta rapidamente evaporando, come affermato dal New York Times già il 19 maggio 2022:

“Gli americani sono stati colpiti dalle sofferenze dell’Ucraina, ma una guerra combattuta lontano dalle coste degli Stati Uniti non resterà popolare per sempre. L’inflazione è un problema ben maggiore per gli elettori americani rispetto all’Ucraina, ed presumibile che si intensificheranno i disagi sui mercati globali dei beni alimentari e dell’energia.

(…)

“Ma con il proseguimento della guerra Biden dovrà chiarire al presidente Volodymyr Zelenskij e al suo popolo che c’è un limite a quanto gli Stati Uniti e la Nato si spingeranno in avanti nel loro confronto con la Russia, e alle armi, al denaro e al sostegno politico che possono fornire.”

E come riferiva il Business Insider il 27 settembre 2022:

“Un nuovo sondaggio suggerisce che, mentre il governo Usa continua a sostenere l’Ucraina nella sua guerra contro la Russia, molti americani sono sempre più stanchi e vogliono vedere sforzi diplomatici per mettere fine al conflitto in cambio degli aiuti.

“Secondo un sondaggio realizzato dal Quincy Institute for Responsible Statecraft e Data for Progress, il 57% dei potenziali elettori appoggia decisamente o in qualche misura l’apertura di trattative diplomatiche da parte degli Usa il prima possibile per mettere fine alla guerra in Ucraina, anche se questo comporti compromessi dell’Ucraina con la Russia.”

Una guerra nucleare?

Biden vorrebbe prolungare l’attuale conflitto con lo scopo di indebolire e compromettere la Russia, ma non a qualunque costo, e di certo non se comportasse uno scontro militare diretto con quest’ultima.

L’accenno di Putin, secondo cui potrebbe considerare l’uso delle armi nucleari, era quasi sicuramente un bluff, ma ha generato allarme nella Casa Bianca. Parlando a una raccolta fondi elettorale a New York, Biden ha detto che il presidente russo non stava scherzando sul “potenziale uso di armi nucleari tattiche o armi biologiche o chimiche, perché il suo esercito, potremmo metterla così, è gravemente al di sotto delle aspettative”.

“Non abbiamo dovuto guardare a prospettive apocalittiche da [il presidente John] Kennedy e la crisi dei missili di Cuba”, ha affermato Biden, aggiungendo che “abbiamo una diretta minaccia di uso delle armi nucleari se le cose continuano sulla china che hanno preso”.

Secondo il Financial Times sono in corso negoziati segreti fra Washington e Mosca:

“Le sobrie dichiarazioni del presidente Joe Biden riguardo la minaccia dell’uso di armi nucleari dimostra che la Casa Bianca ha le idee chiare riguardo il rischio di escalation. Per motivi comprensibili, in pubblico Washington vuole mantenere l’ambiguità strategica, mentre in privato comunica i propri punti di vista al Cremlino.

Tuttavia non c’è nessuna garanzia che i tentativi di usare un mix di nuove sanzioni, più isolamento diplomatico e, forse, attacchi convenzionali Nato contro bersagli militari russi in Ucraina per scoraggiare un Putin disperato dall’uso delle armi di distruzione di massa, dovesse sentirsi con le spalle al muro, avranno successo. Per aumentare le possibilità di impedire una resa dei conti è necessario preparare silenziosamente il terreno per una diplomazia di crisi sin da ora.”

A dispetto di tutto il chiasso sui piani di Putin per ricorrere alle armi nucleari, non esistono informazioni credibili che suggeriscano questa eventualità. Non gli servono queste armi. Da parte russa è evidentemente un bluff (che ha sortito certi risultati).

Ma i russi hanno accusato gli ucraini di prepararsi a usare una “bomba sporca”, cioè esplosivi convenzionali corretti con materiali radioattivo.

Potrebbe essere vero o parte della guerra di propaganda. Ma è piuttosto chiaro che la parte ucraina è sempre più disperata e alla ricerca di qualsiasi scusa per inscenare una provocazione che, sperano, finalmente trascinerà la Nato nella partecipazione diretta al conflitto. Non è affatto escluso che le dichiarazioni russe possano essere vere.

Tutto questo sottolinea i pericoli sottintesi se si permetterà di continuare la guerra. Ci sono in gioco troppi elementi incontrollabili, che potrebbero generare quella spirale al ribasso in grado di portare a una vera guerra fra la Nato e la Russia.

Nel caso di una conflagrazione europea generale, sarebbe impossibile per gli americani restare in disparte, scaldandosi le mani sulle fiamme. Soldati americani dovrebbero scendere in campo. Ma questo non era previsto!

Biden ha detto che sta cercando di trovare un modo per far desistere Putin. “Sto cercando di capire quale sia il modo per Putin per uscire da questa situazione”, ha detto Biden. “Dov’è la sua via d’uscita?”

In altre parole è Joe Biden che adesso sta cercando una via d’uscita. Ma è più facile a dirsi che a farsi.

Negoziare o non negoziare?

Nel primo mese della guerra, fra Ucraina e Russia c’erano state trattative in cui l’Ucraina aveva promesso di restare neutrale in cambio della restituzione dei suoi territori.

Ma la Russia ha chiesto all’Ucraina di riconoscere l’annessione dei territori e la sua stessa “demilitarizzazione” e “denazificazione” – termini che l’Ucraina e i suoi alleati occidentali si sono rifiutati di prendere in considerazione.

Come già detto, Zelenskij ha puntualizzato che l’Ucraina è disposta ad avviare i negoziati con la Russia (ma non con Putin) solo se le sue truppe lasceranno tutte le parti del Paese, compresa la Crimea e le aree orientali del Donbass, controllate de facto dalla Russia dal 2014, e se quei russi che hanno commesso crimini in Ucraina verranno sottoposti a processo.

Ma queste dichiarazioni hanno causato grande irritazione a Washington e non solo. Il Washington Post ha rivelato che esponenti statunitensi hanno avvertito il governo ucraino, in privato, che l’“sfinimento sulla questione ucraina” tra gli alleati potrebbe peggiorare se Kiev continuerà a rifiutarsi di trattare con Putin.

Se gli Usa hanno sinora concesso all’Ucraina aiuti per 18,9 miliardi di dollari e giurano che continueranno a sostenerla “per tutto il tempo necessario”, d’altro canto gli alleati dal resto dell’Europa, per non parlare di quelli africani e latinoamericani, sono preoccupati dal peso della guerra sui prezzi dell’energia e dei generi alimentari, nonché sulle catene di approvvigionamento.

Per gli ucraini accettare la richiesta degli Stati Uniti di trattare sarebbe una ritirata umiliante dopo tutti questi mesi di retorica bellicosa sulla necessità di una vittoria militare decisiva sulla Russia al fine di garantire la sicurezza dell’Ucraina nel lungo periodo.

Putin rischia di essere rovesciato?

La propaganda occidentale è pura autoreferenzialità. Essa si basa su un equivoco fondamentale. Putin gode di grande popolarità, che negli ultimi mesi ha persino raggiunto livelli sempre più alti. Nell’immediato non corre il rischio di essere rovesciato.

In Russia non c’è un movimento contro la guerra degno di questo nome e quel poco che esiste è guidato e diretto da elementi liberal-borghesi. Proprio questa è la sua principale debolezza. I lavoratori danno un’occhiata alle credenziali filo-occidentali di questi elementi e distolgono lo sguardo coprendoli di insulti.

L’unica pressione esercitata su Putin arriva non da un movimento contro la guerra, bensì, al contrario, dai nazionalisti russi e da quanti altri vogliono che la guerra venga portata avanti con maggiore forza e determinazione.

Per quanto concerne la Russia, al momento la guerra ha il sostegno della maggioranza, anche se c’è chi ha dei dubbi. L’imposizione delle sanzioni e il torrente irrefrenabile della propaganda antirussa in Occidente, insieme alla fornitura di armi moderne all’Ucraina da parte di Nato e americani, conferma il sospetto che la Russia sia sotto assedio da parte dei suoi nemici.

Abbiamo già commentato la debolezza (più precisamente, l’assenza) del movimento contro la guerra. Tuttavia, se il conflitto dovesse trascinarsi per un certo periodo di tempo senza alcuna prova tangibile di un successo militare russo, le cose potrebbero cambiare.

A inizio novembre più di 100 coscritti dalla repubblica russa della Ciuvasciahtt hanno organizzato una protesta nell’oblast di Uljanov per non aver ricevuto le paghe promesse dal presidente russo.

I manifestanti sono stati rapidamente “pacificati” dalla polizia antisommossa e dagli agenti della Guardia nazionale russa. Ma il clima di ribellione tra le truppe è un sintomo infausto per le autorità. Tra i commenti al video della protesta si legge:

“Stiamo rischiando la vita e andando incontro a morte sicura per il bene della vostra sicurezza e della pace. Il nostro governo si rifiuta di pagarci i 195 000 rubli che il presidente Vladimir Putin ci aveva promesso! Perché dovremmo andare in guerra per questo Stato, lasciando le nostre famiglie senza sostegni?

“Ci rifiutiamo di prendere parte all’‘operazione militare speciale’ e lotteremo per la giustizia finché non ci saranno corrisposti i soldi che ci erano stati promessi dal governo guidato dal Presidente della Federazione russa!

Un piccolo sintomo, senza dubbio. Ma se il conflitto dovesse continuare, questi sintomi potrebbero moltiplicarsi su scala molto maggiore, rappresentando una minaccia non solo per il proseguimento della guerra, ma per il regime stesso.

Il sintomo più significativo è costituito dalle proteste delle madri dei soldati uccisi in Ucraina. Sono ancora di dimensioni ridotte e perlopiù concentrate nelle repubbliche caucasiche come il Dagestan, i cui elevati livelli di disoccupazione hanno portato numerosi giovani ad arruolarsi volontari.

Se la guerra continuerà e il numero dei morti aumenterà, potremo vedere le proteste di madri a Mosca e Pietroburgo, che Putin non potrà ignorare e non sarà in grado di reprimere. Indubbiamente questo porterebbe a una svolta. Che però non si è materializzata – non ancora.

E adesso?

La guerra in Ucraina è divenuta ormai un importante fattore delle prospettive mondiali. È però un’equazione con così tante variabili che è impossibile prevedere accuratamente l’esito di questa guerra. Né è possibile determinare con qualsivoglia grado di accuratezza quanto ancora potrà durare.

La guerra è un quadro in movimento con molte varianti imprevedibili. Il motto di Napoleone per cui la guerra è la più complessa di tutte le equazioni mantiene tutta la sua forza.

La variante posta con fiducia dalla macchina propagandistica occidentale sin dall’inizio delle ostilità sembrerebbe confermata dall’offensiva ucraina di settembre, e ora dalla ritirata russa dalla parte occidentale di Kherson.

Tuttavia dobbiamo guardarci da conclusioni impressionistiche tratte da un numero limitato di avvenimenti. L’esito delle guerre viene raramente deciso da singole battaglie, o anche da più battaglie. La domanda è: questa vittoria, o quell’avanzata, hanno materialmente alterato il rapporto di forze sottostante, che da sole possono determinare il risultato finale?

Sinora gli ucraini hanno dato prova di un notevole livello di resilienza. Non è però chiaro quanto ancora sarà possibile preservare il morale della popolazione civile e dei soldati al fronte.

Più importante ancora, non è chiaro quanto l’America e l’Occidente siano pronti a spendere vaste quantità di denaro su una guerra di cui non sembra possibile intravedere una fine, e che sta esercitando una pressione intollerabile sull’economia mondiale, spingendo le contraddizioni sociali al limite e tirando la corda della stabilità politica.

Queste domande fondamentali devono ancora trovare una risposta. Il tempo si incaricherà di dirci quale anello della catena si spezzerà per primo. Per il momento, questo conflitto sanguinoso andrà avanti, portando inenarrabili sofferenze a milioni di persone.

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